Investire sulla parola : L’esperienza della relazione terapeutica nel distanziamento sociale - Dott.ssa Concetta Pedron

  UN ANNO DOPO…                                                                                                                        Testimonianze e riflessioni nel tempo del Coronavirus

                                                                                                 Dott.ssa Concetta Pedron

Per noi clinici è sorta improvvisamente, in quest’anno di pandemia, la necessità di ripensare il setting per adattarci alle restrizioni e allo stesso tempo salvaguardare il lavoro terapeutico, o renderci disponibili a nuove richieste, spesso basate sull’urgenza. In molte terapie già in corso è stato necessario e inevitabile continuare le sedute da remoto durante il lockdown.

Non è stato facile.

La dimensione corporea, il non verbale, la presenza reale e simbolica nella stanza di terapia erano tutti elementi che venivano inevitabilmente a mancare.

Poteva risultare disturbante vedere il proprio volto sullo schermo durante il collegamento video, ci sono state interruzioni del lavoro e poi riprese successive.  

Talvolta è stato preziosissimo il canale della scrittura, anche una mail nel momento dell’urgenza aiutava a tollerare l'angoscia in attesa della seduta successiva.

Poterla depositare nella parola scritta spesso evitava l’aspetto distruttivo di un pensiero rimuginativo e poteva giovare di un effetto di contenimento e di un primo step di elaborazione.  Investire sulla parola, dunque, per colmare la mancanza di una presenza concreta, è stata una strada percorribile e funzionale.

Inizialmente prevaleva il disorientamento e l’aspetto ansioso-depressivo, l’insonnia, il senso di vuoto, la convinzione che non ne saremmo mai usciti, la percezione delle giornate tutte uguali, la difficoltà a trovare stimoli vitali. Anche le sedute si facevano tutte uguali a volte.

C'era la perdita del lavoro, c’era la rabbia, il non capire o non condividere i provvedimenti adottati, tutto era incentrato sul concreto; la sintomatologia, laddove presente, si acuiva e trovare uno spazio di elaborazione si faceva veramente difficile.

Poi col passare dei mesi, proprio nell’esasperazione di alcuni meccanismi e dinamiche intrafamiliari, causate dalla convivenza forzata, ma con maggiore disponibilità di tempo per l’auto riflessione, e grazie a strumenti precedentemente acquisiti nella terapia stessa, si sono schiuse delle possibilità e da lì in poi in alcuni casi si è proceduto nel percorso terapeutico a velocità incredibile, come se si susseguissero una serie di insight e questi portassero cambiamenti a cascata.

Cambiamenti piccoli, eppure grandissimi, come assumere una posizione piuttosto che un’altra in famiglia, o riuscire a raggiungere una maggiore consapevolezza del proprio desiderio rispetto ad una relazione, rispetto al proprio lavoro, conquistare pezzi della propria identità attraverso la riemersione di ricordi, specialmente se traumatici, favorita proprio dalla concomitanza di questa nuova, collettiva forma di trauma che è la pandemia, permettendo di rinarrare la storia individuale ed elaborare aspetti luttuosi o traumatici pregressi mai portati alla luce.

I casi caratterizzati già precedentemente da isolamento sociale, si sono ritrovati immersi in un mondo che improvvisamente viveva nella loro stessa dimensione; elaborare questo all’interno della terapia ha significato sentirsi più “sani” e ha provocato miglioramenti sia sul piano sintomatologico che affettivo.   

Insomma nel periodo del lockdown c’è stato un risvolto positivo nei casi di terapie già in corso, che si è poi conservato anche in seguito, e che ha permesso di superare anche gli ostacoli successivi, una volta tornati in seduta in presenza, come indossare la mascherina, tenere le sedie notevolmente più distanziate nella stanza ecc.

La relazione terapeutica è stata il cardine su cui far leva in un momento di incertezza e disorientamento profondo e soprattutto nel quale eravamo e siamo immersi insieme, pazienti e terapeuti.

Questo credo sia un elemento importante.    La pandemia ci ha messi sullo stesso piano, nella stessa situazione, da cui possiamo condividere la medesima prospettiva ed entrambi ci si percepisce reciprocamente umani. Da lì si lavora insieme, il terapeuta mette a disposizione i suoi strumenti, e il paziente si affida e si impegna.

Nelle nuove richieste sopraggiunte nel corso della pandemia, la faccenda è stata più difficile. Lì non c’era la relazione pregressa, bisognava costruirla. Costruirla nell’urgenza, costruirla nella distanza.

È stato necessario formarmi ulteriormente per questo, confrontarmi, documentarmi, crescere come un clinico dovrebbe sempre fare, osservando per capire il nuovo ed evitando di affidarsi solo a conoscenze e competenze pregresse come se fossero universali, eppure senza snaturarsi e stando attenti a rimanere sempre nei canoni dell’etica e della professionalità.

Le richieste che arrivano adesso sono il frutto di un anno di isolamento, lutti o esperienze di ospedalizzazione drammatiche legate al covid stesso, quadri depressivi già gravi in precedenza che la pandemia ha portato sull’orlo del suicidio, richieste da parte della scuola o delle famiglie per bambini e adolescenti carichi di rabbia e aggressività, problematiche di dispersione scolastica legate alla didattica a distanza.

Sono richieste urgenti, che chiedono soluzioni immediate e concrete: quello che conta è stare meglio, subito. 

Stabilire un clima di fiducia è complesso.

Emerge quanto l’isolamento e la perdita degli aspetti vitali dell’esperienza, l’essere tutti potenziali bersagli del virus e vittime del contesto conseguente, abbia privato ognuno della propria unicità nell’essere persone distinte, con la propria vita, le proprie scelte, i propri desideri, le proprie difficoltà. Se non ci si sente più persone, è sempre più difficile entrare in contatto con altre persone, anche quando gli si chiede aiuto.  Recuperare questa dimensione di contatto, umano, dialogico, comunicativo, affettivo, con sé stessi e con l’altro, sarà la nuova sfida della relazione terapeutica che dovremo improntare da qui in avanti.  

E ci sarà da lavorare ancora e ancora su noi stessi come terapeuti perché ci aspettano anni davanti a noi in cui incontreremo in seduta i figli della pandemia.

Confrontarci, fare rete, non lasciarci soli nella pratica clinica è indispensabile. Anche noi clinici dobbiamo essere pronti a comunicare di più e a condividere risorse, esperienze, punti di vista, fuori dalle nostre stanze.

Dunque, buon lavoro a noi.




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